Il tesoro nascosto

Cinquant’anni fa lo sfruttamento massiccio dei combustibili fossili ha rivoluzionato la demografia, l’economia e l’agricoltura dell’intero pianeta, mutando radicalmente il nostro modo di vivere. Ora per poter contenere il riscaldamento globale entro dei limiti accettabili dobbiamo riorganizzarci per abbandonare molto rapidamente l’utilizzo di questa risorsa. Quali sforzi dovremo fare per riuscire a compiere questa transizione che rimette in discussione tutto, anche il metodo con cui oggi ci procuriamo del cibo?

Una grande vincita alla lotteria ha l’effetto di cambiarci la vita, e per la stragrande maggioranza delle persone l’adattamento alle nuove abitudini non costituisce assolutamente un problema; per contro, seguitando a spendere e spandere, i soldi piovuti dal cielo a un certo punto finiscono, e le difficoltà nel tornare alla condizione precedente possono essere notevoli. Quando Edwin Drake nel 1859 rese operativo in Pennsylvania il primo pozzo di petrolio della storia, non era consapevole di aver dato il via allo sfruttamento del più enorme salvadanaio a cui la nostra specie abbia avuto occasione di attingere dal momento della sua comparsa sul Pianeta. Per raccontare l’antefatto di questa storia dobbiamo tornare indietro di qualche centinaio di milioni di anni: a seguito di una complessa somma di circostanze che non è detto possa ripetersi, in quel tempo una parte dell’energia proveniente dal Sole ha cominciato ad accumularsi sottoterra, creando dei grandi giacimenti di carbonio che sono le riserve di combustibili fossili dalle quali oggi stiamo attingendo a piene mani. Molto tempo dopo, la specie Homo Sapiens ha scoperto l’esistenza di questi serbatoi di carbonio, ma non ha dedicato a loro una grande attenzione, almeno fino al momento in cui è stata perfezionata un’importante invenzione capace di trasformare una sorgente di energia in un lavoro meccanico: quanto più combustibile viene fornito a questo particolare dispositivo chiamato “motore”, tanto maggiore è il lavoro meccanico che esso è in grado di produrre. La possibilità di far lavorare incessantemente una macchina ha dato il via ad una nuova epoca chiamata Rivoluzione Industriale, che inizialmente si è fondata sullo sfruttamento del carbone. Successivamente è arrivato il petrolio. Cento anni dopo la prima trivellazione di Drake, l’oro nero entrerà profondamente e definitivamente nelle nostre vite: la società, la cultura, le abitudini subiranno la più grande e rapida trasformazione che la storia dell’uomo abbia mai conosciuto.

Il primo grande cambiamento

Con poco più di 50 dollari oggi si compera un barile di petrolio che contiene l’energia di 25.000 ore di lavoro umane. Nei primi decenni del secolo scorso la quotazione del barile era molto più bassa, mentre il valore più alto che al momento sia stato raggiunto è di 147 dollari nel 2008. Per quanto questo massimo storico possa sembrare elevato per il mercato, è un prezzo assolutamente irrisorio se paragonato con le cifre che dovremmo sborsare per pagare degli esseri umani che vadano a svolgere l’identico lavoro. Nessun altra fonte di energia attualmente conosciuta può reggere il confronto con questa risorsa che ad un costo tuttora bassissimo ci permette di muovere aerei, navi e potenti automobili, costruire infrastrutture e grattacieli, ed estrarre i minerali che ci servono per produrre gli oggetti di ogni tipo che utilizziamo nel nostro quotidiano. È abbastanza ovvio come lo sfruttamento intensivo degli idrocarburi abbia ottenuto di far decollare l’economia planetaria. Nei primissimi anni del dopoguerra il petrolio è entrato anche nell’agricoltura, secondo tre modalità diverse: con la meccanizzazione, che ha visto la sostituzione del lavoro umano ed animale con quello generato dalle macchine, con la fertilizzazione chimica, che in luogo del potenziamento delle capacità organiche del suolo ha portato al suo arricchimento con prodotti introdotti dall’esterno, e infine con la battaglia ai parassiti, che ha iniziato ad essere condotta attraverso l’uso massiccio di pesticidi. Queste tre componenti, realizzate attraverso un input energetico molto alto per ciascuna unità di suolo lavorato, hanno fatto aumentare la produzione agricola di 2,5 volte rispetto alle modalità di coltivazione tradizionale. Grazie a questo incremento è stato possibile nutrire una popolazione che in seguito al boom economico è aumentata di più di 7 volte rispetto a quella esistente all’inizio della Rivoluzione Industriale. Il rovescio della medaglia è che ogni singola caloria proveniente dal cibo che si consuma oggi nei paesi sviluppati necessita di 10 calorie di petrolio per essere prodotta. Per il cibo che mangiamo e per l’economia che ci consente di comperarlo, siamo diventati completamente dipendenti da una risorsa non rinnovabile che sta progressivamente declinando, e che indipendendentemente dalla sua disponibilità, abbiamo scoperto strada facendo di non poter più utilizzare, per non peggiorare ulteriormente un cambiamento climatico che è stato prodotto proprio da questo massiccio sfruttamento.

Energia netta in diminuzione

La nostra attuale civiltà si fonda sul consumo di grandissime quantità di energia che devono essere disponibili a bassissimo costo. Quando nel 2008 le fonti convenzionali di petrolio – ovvero quelle estratte con gli stessi metodi di Drake, sebbene più evoluti – hanno raggiunto il picco di produzione e iniziato la loro fase di declino, il prezzo del barile ha raggiunto il massimo storico dei 147 dollari. Il mercato non è stato in grado di reggere un prezzo così alto: l’economia si è arrestata, la diminuzione della domanda ha fatto crollare la quotazione, che poi lentamente ha cominciato a risalire. Da quel momento in poi il nostro sistema produttivo ha cominciato ad incepparsi, e non è più riuscito a tornare alla condizione precedente. Per comprendere quale meccanismo stia dietro a tutto questo occorre introdurre il concetto di energia netta. Il primo pozzo, entrato in attività nel 1859 in Pennsylvania, ha richiesto una trivellazione di soli 19 metri: il petrolio ha cominciato a zampillare fuori da solo, con forza. Oggi per reperire nuovi giacimenti dobbiamo fare lunghe ricerche, e quando riusciamo a trovarli siamo costretti a trivellare nel sottosuolo e nel mare, scendendo per diversi chilometri: otteniamo un prodotto che non ha una grande qualità, e richiede dei processi di raffinazione abbastanza complessi. In pratica, per poter ricavare dell’energia occorre spenderne dell’altra, e il punto cruciale è il bilancio energetico finale. Nel 1930, con il contributo energetico di un barile di petrolio riuscivamo ad estrarne altri 100, per cui il processo risultava molto conveniente. Fino al 1970 con l’investimento di un barile si riusciva ad estrarne 23. Oggi siamo intorno a 15, ma la tenuta di questo valore dipende dalla funzionalità dei grandi giacimenti trovati nel secolo scorso, che progressivamente stanno andando verso l’esaurimento. Per sostenere le nostre necessità, negli ultimi anni abbiamo cominciato ad attingere alle fonti non convenzionali (sabbie bituminose, petrolio da scisti ottenuto con fratturazione idraulica), ma queste metodologie, oltre a generare enormi danni collaterali in termini di capitale naturale devastato, di consumi ed inquinamenti chimici di acqua, e addirittura di aumento delle probabilità di provocare terremoti, hanno un bilancio energetico molto sfavorevole, che non sorpassa l’impiego di un barile di petrolio per riuscire ad estrarne due, al massimo tre. È certamente vero che sul Pianeta esistono ancora grandi riserve di combustibili fossili, ma quante di queste possono essere sfruttate riuscendo ad ottenere un bilancio energetico che sia sufficientemente in attivo?

Il mutamento climatico

Pensiamo ad un equilibrista che sia camminando su un filo: per restare in equilibrio, costui deve bilanciare molto attentamente la distribuzione dei suoi pesi. I giacimenti di carbonio che noi abbiamo trovato sottoterra hanno impiegato alcune centinaia di milioni di anni per accumularsi; in circa cento anni noi abbiamo ritrasferito in superficie la metà del carbonio che stava sepolto: questo repentino spostamento di materia, avvenuto in un tempo brevissimo rispetto ai tempi necessari per la sua formazione, ha agito sulla concentrazione dell’anidride carbonica presente in atmosfera, provocando uno sbilanciamento degli equilibri climatici. Dato che in natura tutto è collegato, l’aumento di temperatura ha innescato dei processi di fusione dei ghiacci e dei ghiacciai, un aumento del livello dei mari, un aumento della loro acidità dovuto al fatto che gli oceani stanno cercando di contobilanciare l’eccesso di carbonio presente in atmosfera, e un cambiamento delle correnti marine dovuto alle differenze di salinità e di temperatura che si stanno creando. Il risultato è che il clima relativamente stabile che aveva permesso il fiorire della nostra civiltà ha iniziato rapidamente a modificarsi: andando a ritroso nel tempo, la concentrazione di anidride carbonica che oggi abbiamo raggiunto (400 parti per milione, contro le 280 dell’epoca preindustriale) è riscontrabile soltanto nel Pliocene, tra 3 e 5 milioni di anni fa, quando la Terra era più calda di 2-3 gradi e i mari erano più alti di 25 metri.

I meccanismi di feedback

Esistono dei meccanismi a catena che iniziano ad attivarsi quando una perturbazione ne provoca delle altre, che a loro volta entrano in gioco e vanno ad amplificare il fenomeno. La fusione dei ghiacci artici per esempio causa nella regione un maggiore assorbimento di calore perchè si riduce l’energia che viene riflessa dalla superficie bianca della neve: l’accumulo di calore provoca la fusione di quantità di ghiaccio sempre maggiori, che scomparendo contribuiscono ad accelerare il fenomeno. Un altro effetto di feedback positivo particolarmente temibile è la liberazione di metano rilasciato dal suolo nelle aree ghiacciate della Siberia, che iniziano a scongelarsi a causa dell’aumento di temperatura: ai fini dell’effetto serra questo gas è parecchie decine di volte più potente dell’anidride carbonica, e finendo in atmosfera provoca degli aumenti di temperatura che a loro volta fanno liberare dell’ulteriore metano. Con l’incremento medio, già avvenuto, di 0,85°C rispetto ai valori dell’epoca preindustriale, si sono avviati questi ed altri meccanismi a catena: se vogliamo contenerne l’azione, evitando che il clima vada completamente fuori controllo, non dobbiamo superare la soglia molto pericolosa dei 2°C di aumento. Quanto tempo ci resta per agire, e quali sono i margini di manovra che abbiamo?

Ciò che dobbiamo e non dobbiamo fare

Sottoterra giacciono circa 4000 gigatonnellate di carbonio imprigionate in riserve di combustibili fossili di cui soltanto un terzo potrebbe essere economicamente conveniente da estrarre. Se vogliamo avere una probabilità su 3 di stare sotto la soglia dei 2°C di aumento (33% di riuscita), dobbiamo lasciare sottoterra circa due terzi delle risorse che sarebbero potenzialmente estraibili. Per avere delle probabilità maggiori (una su due, corrispondente al 50% di riuscita, oppure due su tre, corrispondente al 66% di riuscita), devono restare sottoterra delle quantità di idrocarburi progressivamente maggiori. A questo contenimento della quantità totale di combustibili fossili che possiamo utilizzare dobbiamo affiancare delle vigorose politiche di efficientamento che entro il 2050 portino ad una riduzione delle emissioni dal 40 al 70% rispetto ai valori del 2010, arrivando al sostanziale azzeramento entro la fine del secolo. Considerando che la transizione del nostro Sistema verso le fonti di energia rinnovabile è un processo molto lento, che richiede decenni per compiersi, dobbiamo agire da subito, e in modo estremamente incisivo. Se non faremo nulla, lasciando che le cose procedano come sempre, la soglia dei 2°C verrà raggiunta entro 16 anni: superato questo limite le temperature saliranno molto velocemente, arrivando anche ai 5 o più gradi entro la fine del secolo. Il mondo che i nostri figli si troverebbero ad abitare sarebbe irriconoscibile rispetto a quello nel quale oggi viviamo.
Putroppo, in termini di politiche mondiali per la riduzione delle emissioni siamo molto lontani dagli obiettivi da conseguire. È indubbio che l’Unione Europea sia riuscita nell’obiettivo di diminuire le proprie emissioni, ma è anche vero che ciò è potuto accadere grazie ad una delocalizzazione della produzione, che si è spostata in Cina, dove una parte significativa dei gas serra generati è dovuta alle esportazioni di merci che vengono commissionate dai nostri mercati. Davanti ad una minaccia terribile che tocca l’umanità intera, comandano ancora le economie e le necessità immediate. Sopratutto nel nostro paese, l’interesse dei cittadini verso queste tematiche è davvero molto basso, e la pressione esercitata sulle istituzioni, ai fini di un cambiamento delle politiche, è quasi inesistente: basta dire che a tutt’oggi, a livello mondiale, gli incentivi che vanno ai combustibili fossili sono 5 volte maggiori rispetto a quelli che vengono destinati alle energie rinnovabili.

Una transizione prima di tutto culturale

Nell’immaginario collettivo ci si aspetta di poter transitare in un mondo nuovo, “verde e pulito”, uguale nella sostanza a quello odierno, ma basato totalmente sulle energie rinnovabili. La verità è che non esistono delle alternative concrete ai combustibili fossili: senza di questi non siamo in grado di mantenere un sistema di trasporti come quello attuale (aerei e navi che solcano i cieli ed i mari trasportando grandi quantità di merci e persone); non siamo in grado di estrarre i minerali che ci consentono l’attuale produzione di merci e di oggetti tecnologici ai quali ci siamo abituati; non siamo in grado di costruire e mantenere le infrastrutture, i grattacieli, ed anche le stesse grandi strutture di produzione energetica, compreso l’idroelettrico ed il nucleare. E sopratutto, non siamo in grado di garantire una produttività agricola come quella che abbiamo sperimentato negli scorsi decenni, e che stiamo sperimentando ancora oggi: in gni caso, questo modo di coltivare non risulterebbe sostenibile nel lungo termine, perchè la logica intensiva finisce di trasformare il suolo fertile in infertile. Alla base della transizione che dovremo necessariamente compiere non c’è il lavoro ingegneristico, ma una grande e profonda rivoluzione culturale: dopo aver scoperto che la Terra non è piatta ma sferica, dopo aver compreso che non si trova al centro dell’Universo ma ruota intorno al Sole, ora dobbiamo realizzare che ha una dimensione fisica limitata. Al di là dei tesori nascosti, che hanno vita breve e non riescono a durare più di un paio di secoli, le risorse materiali che il nostro Pianeta può darci sono piccole rispetto alle nostre attuali pretese.

Gabriele Porrati, Presidente della Cooperativa Onlus Cambiamo e Yuri Galletti, Presidente di Semi di Scienza.

Gennaio 16, 2020

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