Cambiamento climatico e migrazioni forzate

Nel 2000, il chimico olandese premio Nobel Paul Crutzen coniò il termine Antropocene per definire l’epoca geologica che va dalla Rivoluzione Industriale ai giorni nostri in cui l’ambiente terrestre è fortemente condizionato dagli effetti dell’azione umana. In particolare, i processi di combustione innescati dall’attività umana emettono tali quantità di gas serra da alterare la composizione dell’atmosfera. Il Rapporto Speciale 1.5°C dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’organismo internazionale guida per lo studio del cambiamento climatico, rivela che le emissioni di gas serra osservate dal 1750 hanno già causato l’aumento di 1°C della temperatura globale. Se le emissioni continueranno ai livelli attuali, tra il 2030 e il 2052 assisteremo ad un aumento della temperatura di 1,5 °C rispetto all’età pre-industriale.

Secondo gli scienziati, l’innalzamento della temperatura media globale avrà conseguenze enormi sulla Terra. Ampie fasce di territorio diventeranno più aride, e aumenteranno drasticamente le siccità estreme. Si stima che le aree colpite da siccità estrema aumenteranno dall’1 al 30% entro la fine del secolo. La frequenza e l’intensità delle piogge cambieranno, con alcune aree – quelle monsoniche – che saranno più interessate di oggi, ed altre – quelle alle medie latitudini – che lo saranno meno. Lo scioglimento dei ghiacciai porterà ad un innalzamento del livello delle acque del pianeta, stimato tra gli 8 e i 13 centimetri entro il 2030, tra i 17 e i 20 centimetri entro il 2050, e tra i 35 e gli 82 entro il 2100, a seconda dei modelli matematici usati per le previsioni. Questo avrà conseguenze potenzialmente enormi per le persone che vivono vicino ai delta dei fiumi e in generale nelle zone costiere, soprattutto sulle isole più piccole. L’innalzamento del livello dei mari comporterà anche una sempre maggiore salinizzazione del suolo, un fenomeno che avrà gravi conseguenze sull’agricoltura e che secondo le previsioni causerà alluvioni più devastanti.

Si stima che i paesi più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico saranno quelli in via di sviluppo, paradossalmente quelli che contribuiscono meno alle emissioni pro capite di gas serra. Il sud e l’est dell’Asia, in particolare, sono alcune delle zone più a rischio, principalmente per l’innalzamento dei mari, visto che sei delle dieci principali metropoli asiatiche sono costruite sul mare (Giacarta, Shanghai, Tokyo, Manila, Bangkok e Mumbai). Ma le migrazioni climatiche interesseranno ugualmente l’Africa, specialmente nel delta del Nilo, sulla costa occidentale e nella fascia subsahariana.

Il tema dei mutamenti climatici è quindi cruciale, poiché rischia di provocare cambiamenti sociali senza precedenti. Se un domani, infatti, larghe fasce dall’Africa sub-sahariana diventassero troppo aride a causa della rapida espansione della fascia equatoriale, o se la Groenlandia si sciogliesse completamente, causando un innalzamento stimato di 7 metri del livello dei mari e intere isole e territori abitati venissero sommersi, come potremmo gestire la migrazione di intere popolazioni?

Cambiamento climatico e migrazioni forzate

Lo United Nation High Commissioner for Refugee (UNHCR) stima che dal 2009 ad oggi una persona al secondo ha perso la propria casa a causa di un disastro naturale o climatico, per un totale di 22.5 milioni di individui. Norman Myers, noto ambientalista britannico, ha calcolato che entro il 2050 i rifugiati climatici potrebbero essere 200 milioni, un numero che supererebbe addirittura i 192 milioni di persone attualmente sfollate sul Pianeta (qui). La Banca Mondiale ha fornito una stima al ribasso, ma non meno preoccupante: 143 milioni di migranti climatici entro il 2050 (qui).

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), tuttavia, mette in guardia dal fare previsioni precise del numero di persone che saranno costrette a lasciare il proprio paese di origine direttamente a causa degli effetti del cambiamento climatico (qui). Le migrazioni, infatti, sono un processo complesso, il cui esito è determinato da una serie di fattori demografici, economici, sociali e politici interconnessi tra loro. Inoltre, come ricordato da Étienne Piguet (qui), professore all’Università di Neuchâtel ed esperto di migrazioni climatiche, le migrazioni ambientali avvengono principalmente all’interno degli Stati e su piccole distanze. In caso di ciclone o di uragano, ad esempio, le persone tenderanno a scappare nel luogo sicuro più vicino, per poi tornare a ricostruire il proprio villaggio o città. Solo chi ha i mezzi economici e culturali necessari ad affrontare una migrazione transazionale abbandonerà il proprio paese.

Il numero di persone che lascerà il proprio luogo di origine per circostanze ambientali sarà quindi determinato da una ampia serie di fattori aggiuntivi, prima fra tutte la risposta dei governi locali all’emergenza, ma anche la facilità, dal punto di vista legale, con cui sarà possibile spostarsi per questo genere di fenomeni.

I rifugiati climatici: mito o realtà?

Ad oggi non esiste uno strumento normativo che garantisca la protezione dei migranti transazionali forzati da cause climatico-ambientali – detti impropriamente rifugiati climatici o migranti ambientali. La convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati del 1951, infatti, restringe la condizione di rifugiato a chi è minacciato nel proprio paese da persecuzioni legate all’etnia, alla religione, alle opinioni politiche, alla nazionalità, ma non contemplano questioni ambientali. Ai cosiddetti rifugiati climatici, quindi, non è garantito il diritto di entrare e risiedere in un Paese diverso da quello di origine. Ne è esempio il caso di Ioane Teitiota, cittadino originario di Kiribati, un piccolo stato-arcipelago nel Pacifico, espulso dalla Nuova Zelanda dopo aver richiesto asilo perché l’innalzamento del livello dei mari provocato dai cambiamenti climatici aveva messo a rischio la sua vita e quella della sua famiglia.

La comunità internazionale è al lavoro per colmare questo vuoto normativo. La Platform on Disaster Displacement, un forum multi-stakeholders volto a implementare le raccomandazioni della Nansen Initiative Protection Agenda, approvata da 190 delegazioni governative nell’Ottobre 2015, mira a implementare standards e pratiche comuni per prevenire e gestire le migrazioni transnazionali legate agli effetti del cambiamento climatico. Gli Accordi sul clima di Parigi del 2015, invece, hanno chiesto esplicitamente che un comitato speciale istituito alla Conferenza sul Clima di Varsavia del 2013 si occupi di preparare delle linee guida per definire giuridicamente i migranti ambientali. Il Global Compact for Safe, Orderly and Regular Migration, il documento approvato nel dicembre del 2018 dall’Assemblea dell’ONU con il voto contrario, tra gli altri, degli Stati Uniti, chiede esplicitamente che i governi facciano dei piani per prevenire le migrazioni climatiche e per aiutare le persone che saranno costrette a spostarsi per questi motivi.

I rifugiati climatici mettono in crisi la distinzione normativa tra migranti forzati e migranti volontari su cui si basa il sistema di protezione internazionale ed europeo. Se le previsioni dell’IPCC sugli effetti del cambiamento climatico si riveleranno corrette, un numero consistente di persone potrebbe trovarsi non ammesso ad alcuna comunità politica, e quindi senza diritti, invisibile e perseguibile.

Stella Gianfreda, PhD in Scienze Politiche, Studi Europei e Relazioni Internazionali. Scuola Superiore Sant’Anna.

Ottobre 29, 2019

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