Anatomia della balena (e delle risorse energetiche)

1. Lo zeitgeist

Leggere – o rileggere, a seconda dei casi – il più celebre romanzo del “Rinascimento americano”, Moby Dick, o La balena di Herman Melville può essere arduo: il linguaggio è “barocco” agli occhi di noi moderni; le digressioni, per noi, “uomini sempre senza tempo”, possono essere sfinenti e poi… la Balena – vagheggiata, cacciata, immaginata, sognata come in incubo da Achab – arriva in ultimo e fa quello che deve, disintegrando il Pequod e uccidendo tutti, tranne la voce narrante che ci accompagna per tutto il romanzo, quella di Ismaele – possiamo tranquillamente fare spoiler, sono passati 169 anni.

Il romanzo, denso di riferimenti biblici – rilevati puntualmente nella sempreverde traduzione autorevole di Cesare Pavese, ripubblicata nella recente edizione Adelphi – è, in questo senso (nel senso della cruenza della vita di mare, delle battaglie che questi uomini conducevano con il “leviatano”, il mostro marino[1]) veterotestamentario: non c’è spazio per la pietà e le cose accadono (o non accadono) come se la volontà divina fosse sempre lì ben presente e netta a dirimere le questioni senza incertezze. Ma chi si aspetti un romanzo d’avventura o picaresco ha sbagliato libro: qui, si diceva, le digressioni non si contano e il romanzo stesso – nel solco di una tradizione ben nota che passa attraverso Le mille e una notte e il Decameron –rinvia fino alle ultime pagine l’esito di quel che accadrà.

Delle digressioni, quelle che ci sembrano scritte oggi e contribuiscono a fare di Moby Dick un classico, una riguarda il cibo e il rapporto cruento che, allora come ora, gli esseri umani hanno con le bestie che mangiano:

[…] non è forse soltanto a causa dell’estrema untuosità della balena che la gente di terra sembra considerare con ripugnanza il cibarsene. Sembra che in qualche modo ciò risulti dalla considerazione surriferita: che un uomo, cioè, mangi di una creatura marina appena uccisa, e per di più ne mangi alla sua stessa luce. Ma senza dubbio, il primo uomo che uccise un bue venne considerato assassino; magari venne impiccato; e se fosse stato processato da buoi, impiccato lo sarebbe stato di certo; e certo se lo sarebbe meritato, se un assassino si merita questo. Andate al mercato della carne la notte d’un sabato e guardate i mucchi di bipedi vivi che stanno a contemplare le lunghe file di quadrupedi morti. Non fa cadere i denti della mascella di un cannibale quello spettacolo? Cannibali? E chi non è cannibale? Vi dico che la passerà più liscia il figiano che abbia messo in sale nella sua cantina un magro missionario per far fronte a una carestia imminente; la passerà più liscia quel previdente figiano, vi dico, nel giorno del Giudizio, che non toccherà a te, incivilito e illuminato ghiottone, che inchiodi a terra le oche e banchetti di pâté de foie gras coi loro fegati gonfi.

Ma Stubb, Stubb mangia la balena alla luce del suo olio, no? e ciò si chiama aggiungere al danno le beffe, vero? Da’ un occhio al manico del tuo coltello, o incivilito e illuminato ghiottone che stai pranzando con bue arrosto; di che cos’è fatto quel manico? di che cosa, se non delle ossa del fratello del bue che stai mangiando? e con che cosa ti stuzzichi i denti, dopo che hai divorato quell’oca grassa? Con una piuma dello stesso volatile. E con che penna scrisse le sue circolari il segretario della Società per la Soppressione delle Crudeltà usate alle Oche? È appena un mese, al massimo due, che quella Società ha votato una decisione di non tollerare altre penne che d’acciaio.[2]

Un duro giudizio morale che si potrebbe applicare ancora oggi. E una visione – alimentata proprio dal “libro dei libri”, la Bibbia – secondo cui, almeno riferendoci a una interpretazione (diffusa) di alcuni passi, l’uomo è al vertice di una presunta piramide del creato: Dio, si legge in Genesi 2:18-24, vide l’uomo solo, e come prima compagnia gli creò gli animali. Ma l’uomo non vi si riconobbe. Anzi imponendo loro i nomi, secondo le categorie antiche, lì si vuol dire che l’uomo è diverso, superiore e “quasi” creatore del senso che gli animali debbono avere nell’habitat umano. Ecco il nocciolo della questione: l’animale è creato per esser d’aiuto all’uomo, per il suo vivere mondano, ma è un livello diverso, inferiore, subalterno. Tant’è che dopo il test dell’imposizione dei nomi, Dio riconosce che l’uomo è ancora solo e l’uomo stesso «non trovò [in essi] un aiuto che gli fosse simile» (Ibid., v. 20). Dobbiamo aspettare l’arrivo di Francesco d’Assisi per capovolgere la prospettiva e tornare ad essere creature (senzienti e quindi, almeno in teoria, responsabili) tra le creature.

Ma, che fossero “tempi duri”, era indubbio: la natura, prima di essere completamente soggiogata – attraverso scienza e tecnica – ai voleri dell’umanità, era matrigna e se da un lato dava, dall’altro pre(te)ndeva, talvolta anche molto. Se ci si pensa stiamo parlando di meno di due secoli fa eppure, per come è evoluta la storia nel seguito, sembrano passati millenni. Che fossero tempi duri ce lo dice un’altra storia che non ha nulla a che vedere con il romanzo, ma accadde un paio d’anni prima che il romanzo venisse pubblicato, ed è un’altra storia americana, quella della spedizione Donner[3].

La natura, matrigna, era però vista come fonte inesauribile di risorse. L’idea di “servizio ecosistemico” era di là da venire e forse ancora alcune delle moderne teorie economiche si basano sulla convinzione che le risorse (minerali, energetiche, di cibo – animale e vegetale) siano lì, inesauribili. Ancora una volta vale la pena citare il testo di Melville:

[…] siccome forse cinquanta di queste balene da osso vengono ramponate per un solo cachalot, qualche filosofo del castello di prora ne ha concluso che questo positivo massacro ha già decimato molto seriamente i battaglioni di quelle balene. Ma benché da qualche tempo a questa parte un bel numero, non meno di 13.000, ne siano state uccise annualmente soltanto dagli Americani sulla costa del Nord-ovest, pure ci sono considerazioni che rendono anche questa circostanza di poco o nessun conto come argomento d’opposizione nella faccenda.

Naturale com’è una certa incredulità riguardo all’abbondanza delle creature più enormi del globo, pure che cosa diremo ad Harto, lo storico di Goa, quando ci racconta che in una caccia il re di Siam prese 4.000 elefanti, e che in quelle regioni gli elefanti sono numerosi come le mandrie di bestiame nelle regioni temperate? E sembra che non ci sia ragione di dubitare che, se questi elefanti ormai cacciati per migliaia di anni da Semiramide, da Poro, ad Annibale e da tutti i monarchi successivi dell’Oriente, se questi sopravvivono là in grande numero, molto più potrà la grande balena sopravvivere a ogni caccia, dacché essa ha un pascolo per spaziare che è grande precisamente due volte l’intera Asia, le Americhe, l’Europa, l’Africa, la Nuova Olanda, e tutte le isole del mare messe insieme.[4]


[1] La locuzione «mostro marino» non è casuale: in un’epoca (ancora) timorata di Dio come quella, rifacendosi alla Bibbia troviamo almeno due citazioni in cui l’equivalenza è data: «e Dio creò le grandi balene (mostri marini)» (Genesi 1:21); «Son io forse il mare o una balena (mostro marino), perché tu mi metta accanto una guardia?» (Giobbe 7:12). In generale le balene – e il capodoglio in particolare – sono associate, anche nel romanzo di Melville, al Leviatano.

[2] Herman Melville, Moby Dick, o La balena, Adelphi, Milano, pp. 329-330.

[3] Non mi dilungo su questo episodio terribile, ma chi volesse approfondire può trovare una esaustiva voce su Wikipedia, all’indirizzo: https://it.wikipedia.org/wiki/Spedizione_Donner

[4] Melville, op. cit., p. 484.

2. Le balene salvate dal petrolio

Le balene – mostri marini e nemiche – quindi da cacciare e da cui estrarre il prezioso olio. D’altra parte la forza su cui si poteva contare, ai tempi di Moby Dick, era muscolare. Per le baleniere come il Pequod le si poteva aggiungere quella del vento, ma era davvero un lavoro fatto a mano e quindi improbo.

Il film Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick (2015, regia di Ron Howard), ha inizio nel 1850, anno in cui Herman Melville, in cerca di ispirazione per il suo nuovo romanzo, si reca a far visita all’anziano Thomas Nickerson, sull’isola di Nantucket (Massachusetts), con la speranza di riuscire a farsi raccontare del tragico naufragio della baleniera Essex, su cui Nickerson era in servizio come mozzo. Il vecchio marinaio in un primo momento si mostra riluttante, ma alla fine, spronato anche dalla moglie, decide di raccontare al suo ospite la vera storia del naufragio. La storia si dipana, tragica e imponente, e finisce con uno scambio di battute tra lo scrittore e Nickerson.

Poco prima di congedarsi, il vecchio marinaio della Essex constata che, probabilmente, il mondo della caccia alle balene del quale ha appena finito di narrare una dolorosa storia, presto cesserà di esistere perché, per quanto possa apparire incredibile, è appena giunta la notizia che in un’altra regione degli Stati Uniti, scavando con un particolare congegno meccanico, sia uscito (petr)olio dal terreno.

Lo scrittore risponde con una sorta di alzata di spalle e una specie di «chissà dove andremo a finire», e il film finisce.

Questo ci ricorda il motivo per cui la caccia alle balene fu un’attività così fiorente negli Stati Uniti tra il 1800 e il 1860: l’olio estratto dai cetacei serviva, come evidenziato più volte nel film, a rischiarare le buie notti di quell’America convinta che l’Uomo fosse il centro dell’universo per volontà divina e le povere balene dei mostri marini – come già accennato – con i quali Dio testava la sua forza. La scoperta del petrolio cambiò radicalmente la vita dell’umanità sul pianeta, ma in prima battuta scongiurò, almeno inizialmente, l’estinzione delle balene (Fig. 1).


Figura 1 – Andamento della produzione petrolifera e della cacciagione delle balene, fonte: https://ugobardi.blogspot.com/2014/11/la-piu-grande-storia-del-picco-mai.html

Questo ci introduce alla questione della rinnovabilità delle risorse naturali. In figura 2 sono riportati in scala logaritmica i tempi necessari per la rigenerazione delle risorse terrestri. Essendo la scala logaritmica, ogni intervallo corrisponde ad un fattore 10. Questo significa che ogni intervallo sulle ascisse nella figura corrisponde ad un numero di anni 10 volte più lungo di quello dell’intervallo precedente, ma ha, sul grafico, la stessa spaziatura.


Figura 2 – Tempi di rigenerazione delle risorse terrestri, riadattato da P. Bihouix , B. de Guillebon B., Quel futur pour les métaux?, EDP Sciences, 2010. Fonte: Luca Pardi, Il paese degli elefanti. Miti e realtà sulle riserve di idrocarburi in Italia, Lu::Ce edizioni, Massa, 2014.

Per il resto la lettura del grafico risulta abbastanza semplice: i rettangoli al suo interno rappresentano le diverse risorse e la loro lunghezza la loro esauribilità; sul margine destro è indicata la tipologia. Ogni accumulo è soggetto a variazioni quantitative a seconda del grado di sfruttamento a cui è sottoposto. I diversi stock sono per la maggior parte non rinnovabili da un punto di vista umano, cioè si ricostituiscono in tempi che superano di due o più ordini di grandezza la durata della vita umana rappresentata nella figura, come evidenziato dalla linea verticale tratteggiata.

Gli stock di acqua, ad esempio, hanno tempi di rigenerazione che vanno dai giorni (per l’acqua di ruscellamento), agli anni (per le falde freatiche), alle migliaia di anni (per le falde fossili). Agricoltura e allevamento hanno tempi di ricostituzione dipendenti dal tipo di attività.

La maggior parte dell’energia che la società utilizza riguarda i combustibili fossili i cui tempi di rigenerazione vanno dalle decine di milioni di anni, per gas e petrolio, alle centinaia di milioni anni per i diversi tipi di carbone. Le risorse minerarie hanno tempi di ricostituzione che, espressi in anni, variano entro nove ordini di grandezza, oscillando da alcuni anni, come per il sale da cucina, ai miliardi di anni per i minerali, la cui concentrazione dipende dai fenomeni tettonici. E, per i minerali, almeno in un caso acclarato – quello dell’escavazione marmifera, soprattutto nella zona di Massa-Carrara – siamo ormai al quasi completo esaurimento.

È in questo quadro che si deve iniziare a considerare lo sfruttamento delle risorse terrestri. Di norma le persone riescono a cogliere immediatamente il significato delle scansioni temporali indicate lungo l’asse delle ordinate nel grafico riprodotto nella figura 2, corrispondenti a circa 100 anni, ovvero a un arco temporale che ingloba le esperienze che ogni individuo ha del tempo: dalla vita quotidiana alla sua “dilatazione” in una dimensione storica. Il senso dei tempi biologici (qui indicati nel grafico lungo l’asse delle ascisse) e geologici (comparati con la dimensione storica dell’uomo) invece sfuggono totalmente alla comprensione della stragrande maggioranza degli individui.

Questa, ma non solo questa, la “causa psicologica” della scarsa percezione dei problemi di esaurimento delle risorse. Con Bardi:

C’è una ragione per cui questi eventi epocali non lasciano traccia nella percezione della gran parte delle persone. È perché tendiamo a vedere il mondo in termini romanzeschi, non in termini di fatti e dati. Percepiamo solo le cose che generano una reazione emotiva su di noi e per generare questa reazione ci deve essere una storia, un racconto. Potremmo dire che tutta la narrativa è una ricerca di qualcosa, ha a che fare col riuscire contro le difficoltà, ha a che fare con le trasformazioni che avvengono a causa di eventi drammatici. È questa trasformazione che fa risuonare la nostra mente con gli eventi descritti. Reagiamo agli eventi perché percepiamo una storia, non perché leggiamo i numeri scritti su una tabella. Pensate all’altro grande problema dei nostri tempi, il cambiamento climatico: ha un potenziale narrativo tremendo, non è solo che porterebbe con sé eventi drammatici, ma perché sentiamo qualcosa per il nostro pianeta. Percepiamo il fatto che rischiamo di distruggere l’ecosistema terrestre e sentiamo qualcosa per questo: è il racconto di un evento drammatico. È per questa ragione che oggi si discute tanto di “fantaclimatica” (cli-fi, in inglese).[5]

Ma col petrolio tutto è cambiato. Se c’è un segno inequivocabile dello “stato di salute” di una specie, questo è l’incremento della sua popolazione. Il grafico in figura 3 mostra due curve: una rappresenta la disponibilità di energia complessiva e l’altra l’incremento di popolazione proprio a partire dal 1800. Credo che si possa tranquillamente affermare che la prima (la disponibilità energetica) sia causa della seconda (l’incremento della popolazione).


Figura 3: La linea blu del grafico rappresenta il consumo energetico mondiale in esajoule [EJ] e la linea rossa tratteggiata l’incremento della popolazione. Fonte: dati pubblici elaborati dall’autore.

[5] Ugo Bardi, La più grande storia del picco mai scritta, sul blog «Effetto Risorse » all’indirizzo: https://ugobardi.blogspot.com/2014/11/la-piu-grande-storia-del-picco-mai.html

3. Conclusione: Moby Dick avrebbe potuto davvero distruggere il Pequod?

Abbiamo iniziato con la letteratura e con questa finiamo, ma… con un pizzico di scienza. Qualcuno si è chiesto: ma una balena come Moby Dick, identificata nel capodoglio (Physeter macrocephalus), sarebbe riuscita realmente a distruggere una baleniera? Alcuni ricercatori delle più diverse discipline si sono confrontati e ne è uscito un articolo scientifico[6] che, in sostanza, risponde affermativamente: un capodoglio ci sarebbe riuscito, magari dalla botta si sarebbe ripreso a fatica, ma sarebbe sopravvissuto.

La domanda è ovviamente molto controversa perché ci sono molte variabili di cui tener conto. È stata comunque oggetto di acceso dibattito almeno dai tempi del romanzo – che, pur romanzo, aveva bisogno di una sua plausibilità. Il testone di un capodoglio è qualcosa di bizzarro: «una delle strutture più strane nel mondo animale», scrive l’autrice principale dello studio, Olga Panagiotopoulou, esperta di anatomia, struttura ossea e meccanica dei grossi animali. Il motivo di questa stranezza è da tempo oggetto di studi.

I capodogli maschi possono essere lunghi fino a 18 metri: la fronte è un terzo della lunghezza e un quarto della massa corporea. Dentro ci sono due sacche piene di fluido, una sull’altra. L’organo dello spermaceti è quello sopra: non contiene sperma, ma la preziosa sostanza cerosa semiliquida per cui quelli come il capitano Achab andavano a caccia di balene. Il sacco in basso si chiama melone.

Ricerche precedenti stabiliscono che i sacchi servono per l’ecolocalizzazione: i cetacei si orientano emettendo suoni che vengono rimbalzati nell’ambiente circostante. Secondo altri studi, servono per galleggiare o a utilizzare i sonar per stordire le prede. L’idea che i capodogli utilizzino la testa come un ariete di sfondamento è stata diffusa sostanzialmente da Moby Dick, romanzo che abbiamo accennato essere ispirato alle leggende dell’Ottocento in cui i capodogli venivano accusati di aver affondare alcune baleniere, tra cui nel 1820 la Essex, salpata nel 1799 da Nantucket, in Massachusetts di cui film Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick tratta. Owen Chase, il primo ufficiale della nave, scrisse un libro che «descriveva la testa della balena come progettata in modo straordinario per questo tipo di attacco», racconta la Panagiotopoulou.

Questo accadeva l’attimo prima di divenire i padroni incontrastati del mondo. Tempi duri, si diceva, ma dove la nostra umana hybris poteva ancora essere messa in discussione da quella natura che si manifestava con la potenza della balena.


[6] Panagiotopoulou et al. (2016), Architecture of the sperm whale forehead facilitates ramming combat. «PeerJ», 4:e1895; DOI 10.7717/peerj.1895

Luciano Celi – Istituto per i Processi Chimico-Fisici, CNR di Pisa e Socio di Semi di Scienza

(http://www.cnr.it/people/luciano.celi)

Marzo 3, 2020

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