Il buco dell’ozono

In questo articolo parliamo di un tema ancora purtroppo attuale: l’impoverimento dell’ozono della stratosfera, comunemente noto come “buco dell’ozono”.

Come premessa è opportuno ricordare che la presenza “benefica” dell’ozono negli strati alti dell’atmosfera (20-30 km) non deve essere confusa con l’inquinamento da ozono all’altezza del suolo, che provoca irritazione alle nostre vie respiratorie soprattutto in periodo estivo (il che ci porta a ricordare che la scarsa qualità dell’aria non è un problema solo invernale). L’ozono stratosferico, infatti, genera una sorta di schermo dalla radiazione solare ultravioletta proteggendo il pianeta dai potenziali danni permanenti alle cellule animali (e quindi anche umane) e dagli effetti nocivi sulla crescita dei vegetali. Una riduzione dell’ozono in stratosfera comporta quindi l’arrivo di un maggior quantitativo di raggi UV al suolo.

L’uomo, liberando in atmosfera sostanze chiamate ODS (Ozone Depleting Substances) quali i noti “CFC” (impiegati come refrigeranti, solventi e agenti propellenti nell’industria e nella vita di tutti i giorni) ha determinato negli anni l’assottigliamento di questo schermo protettivo in alcune aree del pianeta.

Tra quelle più fragili vi è il Polo Sud, che con le sue condizioni ambientali estreme vede ogni anno un drastico calo dello spessore dello strato di ozono al termine dell’inverno polare (con il ritorno di una maggior radiazione solare). Al Polo Nord, questa problematica è generalmente meno comune grazie alla minore intensità e durata del freddo in stratosfera per effetto delle correnti oceaniche (sotto i -80°C si generano le nubi stratosferiche polari che innescano i meccanismi chimici causa della deplezione dell’ozono).

Nonostante il Protocollo di Montreal del 1987, che ha portato ad alcuni segnali di “guarigione”, la problematica non è ancora risolta poiché queste sostanze sono tuttora circolanti in atmosfera. Nel 2020 così come nel 1997 e nel 2011 si sono generati dei “buchi” nel Polo Nord che verso la primavera si sono dispersi come masse d’aria arrivando fino all’Europa.

Da uno studio recente a cui hanno partecipato il CNR e l’ARPA Valle d’Aosta (The 2020 Arctic ozone depletion and signs of its effect on the ozone column at lower latitudes, consultabile all’indirizzo https://rdcu.be/cxWkt) emerge che nel nord Italia si sono verificati valori di radiazione UV superiori alla media nel periodo compreso tra aprile e maggio 2020. I ricercatori affermano che si tratti di “un evento raro, ma che potrebbe diventare sempre più probabile col riscaldamento globale” e che la problematica è “fortunatamente tornata ai suoi valori tipici in poche settimane e le variazioni osservate nei mesi di aprile e maggio 2020 (un aumento di circa il 20%) non devono destare eccessiva preoccupazione, sia per la durata limitata del fenomeno sia perché oggi si dispone di tutta l’informazione necessaria per proteggerci”.

L’evento, tuttavia, è rappresentativo in ottica scientifica poiché dalle sei stazioni europee di monitoraggio (dalle Svalbard a Roma passando per Aosta) è stato possibile ricostruire il movimento delle masse povere di ozono dal Polo Nord fino al Mediterraneo. I dati hanno confermato l’origine artica dell’evento ma hanno inoltre evidenziato, nella complessità del fenomeno, il verificarsi di ulteriori interferenze e sinergie locali nelle maggiori radiazioni UV registrate nel periodo. Secondo i ricercatori, una delle cause è imputabile alla riduzione del particolato al suolo, in grado anch’esso di assorbire i raggi UV, per effetto del lockdown. In Valle d’Aosta, alla tipica risalita degli inquinanti atmosferici dalla Pianura Padana (che ha compensato parte della riduzione delle emissioni durante il lockdown), la radiazione si è riscontrata elevata anche per effetto di alcune giornate serene e secche su tutta l’Europa nella primavera 2020. È opportuno ricordare, come citato dall’ARPA, che per l’incidenza della radiazione UV al suolo, “alcuni studi evidenziano un possibile ruolo delle emissioni da traffico aereo sull’ozono a quote intermedie (libera troposfera)”.

Infine, abbiamo citato poco fa l’interferenza del cambiamento climatico. Pare, infatti, che un contributo a una più frequente formazione del buco dell’ozono artico sia imputabile all’effetto serra (ovvero all’innalzamento delle temperature al suolo) che innesca un contrapposto raffreddamento della stratosfera, alla radice di tale deplezione. Gli autori concludono che anche attraverso il monitoraggio in continuo della radiazione UV si potranno osservare i rischi a livello locale connessi ai fenomeni globali complessi.

Autore: Matteo Bo – socio, ingegnere ambientale

Settembre 21, 2021

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